Monografia

Nel 1933 Emilio Vitali espone alla Galleria Pesaro. Lo presenta Paolo D’Ancona. È alla sua prima personale, ma dal ’29 ha partecipato a molti degli appuntamenti più importanti dell’arte italiana: la Promotrice di Genova, la Biennale di Brera, la Permanente, la Biennale di Venezia, ecc. La mostra del ’33 ha dunque dei precedenti di non poco conto, validi comunque a stimolare l’attenzione di un gallerista illustre come Lino Pesaro, quella di uno storico di rango come D’Ancona e la fantasia di un giovane poco più che trentenne sostanzialmente in pieno accordo con il credo pittorico di Ojetti, ma poeticamente votato alla solitudine ed in costante sintonia con la tradizione di una scuola lombarda precedente il Novecento e consistente soprattutto nel rapporto diretto con la realtà, senza mediazioni concettuali di sorta. Ojetti sin dal 1921 aveva sostenuto che la qualità dell’arte doveva consistere nella “sincerità, coscienza, ordine, amore della realtà, meglio della certezza”. Le parole di Ojetti vanno ricondotte al rappelle à l’ordre del clima postbellico e non si discostano, in tal senso, da altre posizioni, interessate, però, più alla definizione di una disciplina che alla formulazione di una poetica. In quest’ottica, invece, vengono viste da Vitali ventenne che, ricollegandole alla tradizione pittorica e soprattutto ritrattistica ottocentesca da cui proviene (Rapetti prima, Alciati e Andreoli poi), le pone a fondamento di una propria personale ricerca che attraversa tutto l’arco della sua non breve militanza artistica.

Il termine usato non è casuale, benché l’opera di Vitali si sia svolta sin dall’inizio al di fuori dei movimenti, che pure ha guardato con distaccato interesse. Militanza è quella di chi concepisce il cavalletto e la tavolozza come quotidiano destino, a cui non è lecito sottrarsi. Scriverà nel 1979: “Sono stato lungamente malato. Ogni pensiero di lavoro non esisteva più in me; nessun progetto di mostre e quel che è peggio, nessun desiderio di riprendere quello che è sempre stato lo scopo principale della mia vita, la mia attività di pittore. ( …)”. Le parole di Ojetti non vanno dunque lette in senso convenzionale, ma in una prospettiva storica e in rapporto all’omogeneità della produzione pittorica di un artista che ha dedicato la sua vita all’osservazione- del vero, sia esso la figura umana o il paesaggio. D’Ancona nella citata presentazione si sofferma sul ritratto, già allora sacrificato, nonostante la “magnifica tradizione tutta nostra”. In particolare lo storico analizza i ritratti di donna che sente “nella forma e nello spirito, squisitamente moderni. ( …) In un ritratto non basta rendere la morbidezza dei velluti ed il fruscio delle sete, dare sostanza ai toni delle carni e solidità all’immagine, ma ( …) in esso non meno interessa la vita interiore, quella che suol dirsi la luce dell’anima”. Le parole di Ojetti rilette alla luce di quelle di D’Ancona acquistano il loro più diretto significato. Amore della realtà, ma ancora di più amore della certezza, quella che si scopre guardando una persona nella sua misteriosa e indicibile profondità. Paradigmatici in questo senso sono i numerosi ritratti alla moglie, dove l’avvertimento di una struttura plastica vigorosa – presente in modo fortemente significante fino agli anni quaranta – cede ad una percezione delicata e tenue dell’aura che avvolge il personaggio, lasciando intravedere impalpabili qualità interiori di dolcezza e di forza. Del resto già nel 1931 il ritratto della madre – ancora molto ottocentesco nell’impostazione lievemente torta del busto e nello stesso taglio ovale – va ben oltre l’ottimo risultato del “pittore tonale” di cui parla D’Ancona, per conquistare nello sguardo, nel taglio delle labbra serrate, nella lieve inclinazione del viso e fin nella scollatura a punta, il senso di una intensa e materna femminilità, un misto di indulgenza e di forza in cui ognuno può ritrovare qualcosa della propria madre. Questo senso di una maternità eterna o, in altri ritratti, di una femminilità eterna è forse una delle conquiste più interessanti della pittura di Vitali. Guardare un volto, studiarlo sin nelle pieghe del carattere e dell’età, per scoprire in esso un po’ di quella storia dell’umano che è in ognuno di noi, e comunque una riposta verità che corrisponda all’amore per la certezza. Il ritratto di Marghe degli anni trenta è uno dei dipinti più importanti nella storia della ritrattistica di Vitali. La concezione monumentale della figura corrisponde ad un ideale classico della femminilità ed in esso si condensa tutta l’aspirazione poetica dell’artista: la conquista di un equilibrio formale assoluto, dove il momento fuggevole della bellezza si incontra con la verità interiore ed eterna della persona, facendola assurgere a simbolo di una condizione e di un’epoca. Dovette essere difficile per un artista schivo e non polemista come Vitali, capire così a fondo il valore del ritratto in un’epoca che andava via via svilendolo: dal rifiuto della somiglianza come intralcio alla realizzazione poetica del ritratto – questa la posizione dei futuristi sin dal Manifesto tecnico del 1910 – alla negazione del valore artistico del genere, il passaggio era inevitabile. Soffici e lo stesso Croce contribuiscono a definire tale atteggiamento che influenza non poco l’estetica del tempo. Sarà merito di Sartre sin dal 1940 riproporre, pur all’interno di un’intensa problematicità, il valore del ritratto come possibilità di conoscenza.

La posizione critica di Brandi si inserisce nel dibattito degli anni quaranta in modo chiarificatore: il problema non è nella somiglianza, ma nella consistenza del fatto artistico. È evidente, comunque, che le scelte sostanzialmente non figurative della nostra epoca non hanno sostenuto la pratica del ritratto. Di qui l’isolamento maggiore di un artista come Emilio Vitali che, infatti, inizia, soprattutto dopo la seconda guerra, ad approfondire il tema, del tutto nuovo per lui, del paesaggio. Il ritratto non viene, però, mai abbandonato, anche perché, indipendentemente dalle mosse ufficiali dell’arte, sono molti coloro che cercano il ritrattista Vitali, ormai famoso anche all’estero. “Sono passati tanti anni; io continuo la mia strada senza deviazioni, con una mira costante e con tanto amore”. Così Vitali concludeva una sua auto-presentazione redatta per il catalogo della mostra tenuta nel 1969 alla Galleria Levi. La fedeltà a un ideale intravisto nella prima giovinezza e poi perseguito con tenacia, nonostante le difficoltà di convivere con una situazione artistica che sempre più va negando ciò in cui Vitali crede, è qui espressa con quella semplicità che ha caratterizzato tutta la vita dell’uomo e dell’artista. Semplicità e verità; impasto di colori e toni (l’essenza della mia pittura, dirà una volta); ma questo valeva “prima che i pittori si facessero filosofi, sociologi, politici” (M.Monteverdi, 1972). Un cono d’ombra vela la storia di questo pittore, ma non attenua la sua tenacia, la sua caparbia volontà di un’arte intrisa di verità; non la attenua, ma vi aggiunge silenzio. “Dopo la guerra, col maturarsi degli anni, mi sono sentito attratto anche dal paesaggio (…)”. La storia è storia e non la si può cancellare. Le vicende della guerra sono tremende per Vitali e per la sua famiglia. Di qui il silenzio di cui si diceva. L’artista già schivo e solitario, lo diviene ancora di più, mentre la sua pennellata si fa più tenue. La carica con cui strutturava saldamente e quasi plasticamente le figure, si allenta per lasciare spazio ad una nuova e diversa pensosità. E mentre prima – ma come è denso di significato e di profondità questo “prima” – i contorni erano netti, vigorosi, per definire le forme fra loro; e mentre prima gli scuri erano una cosa e i chiari un’altra, secondo un ordine antico che sottintendeva altre gerarchie ed un generale equilibrio; la nuova pittura si stempera nella luce, si sfalda nell’impossibilità di definire alcunché e pare continuamente rinviare ad altro, ad una cognizione diversa delle cose. Il fondo dei dipinti – nei ritratti, per esempio – è come mosso da impercettibili atmosfere che si agitano intorno alla chiara definizione del volto. Le certezze della vita sono forse crollate, o appena incrinate, ed una più manieristica – il termine va assunto nel suo altissimo e storico significato-qualità della pittura pare cercare nuovi punti di riferimento, nuove verità.

In questo senso può leggersi, allora, la rivisitazione che, nel paesaggio, Vitali fa di momenti artistici lontani nel tempo, L’interesse è soprattutto a certo tardo impressionismo, dove l’emozione visiva è già sottoposta ad un processo di semplificazione e di riduzione, L’ombrellino rosso del 1956 e L ‘ombrellino bianco del ’57 sono opere esemplari di una pittura fondata sulla meditazione e sul silenzio, La percezione della cosa vista nella natura è carica della commozione dell’artista e del suo senso della bellezza, ma è chiaro l’emergere di una concezione dell’arte come invenzione di un mondo sognato e non esistente. Forse il rifugio della memoria o semplicemente il vagheggiamento di un’utopia. Vitali esce di casa con il cavalletto e non tradirà mai questo onesto rapporto col reale, ma gli occhi vedono oltre. La finestra sul lago è poeticamente e concettualmente uno dei lavori più intensi: l’artista rappresenta lo spazio consueto e domestico di una stanza della sua abitazione al lago, ma da qui lo sguardo trapassa lentamente verso l’aperto, fuori dalla finestra. Dentro le solite cose conosciute a memoria, fuori la vastità del cielo e la luce. Come nell’ombrellino rosso e poi in quello bianco, anche qui si insinua una valenza simbolica, forse la conquista più alta della maturità dell’artista. Rileggere tutto questo oggi, a tanti anni di distanza, mentre le nuove vicende dell’arte consentono una percezione non penalizzante delle esperienze figurative di questi ultimi decenni, ha un po’ il sapore della riscoperta. Il problema di fondo resta quello della forma e del mistero che da essa emana avvolgendo la storia dell’uomo ~ del cosmo. Al di là delle diversità linguistiche di ogni epoca e di ogni artista, nel tempo resta soltanto questa forza mirabile che è dell’arte e della poesia di vedere oltre ed attraverso.
Paolo Biscottini